La recente ondata di maltempo ha particolarmente colpito alcuni quartieri centrali della città. Quartieri un tempo nevralgici ed importanti, che oggi non godono più dei fasti e della considerazione di allora. Per cui, oltre ad un aiuto concreto tramite una donazione, è opportuno ridare centralità ad un area urbana che sembra quasi periferica, puntando la nostra attenzione e curiosità verso quei toponimi oramai perduti che caratterizzavano il primo “centro fuori le mura” moderno.

Oggi parliamo, nello specifico, di una delle poche vie cittadine che hanno mantenuto inalterato il loro nome dall’800 ai giorni nostri: Via Spiaggia delle Forche. Sono sicuro che molti di voi si siano chiesti il perché di questo curioso nome, che rappresenta di fatto un unicum anche al di fuori di Crotone. Bene, sappiate che centrano dei particolari attrezzi da macello utilizzati tra il ‘700 ed l’800, come avrete intuito dalla xilografia in alto.

Torniamo indietro nel tempo, quando nel corso del XVIII secolo i Borbone posero fine al secolare divieto di edificare al di fuori delle fortificazioni. A quel tempo la maggior parte delle attività artigianali si svolgevano lungo le vie cittadine (si pensi alla Piazza Lorda), mentre al di fuori delle mura erano concesse l’agricoltura e l’allevamento. Buona parte del territorio dove oggi viviamo era composto da colline, dune, valloni e scarpate, e si presentava dunque poco adatto ad attività umane.

Come si presentava la città nel XVIII secolo

Un terreno più pianeggiante era rappresentato dalle aree prospicenti al mare, dette al tempo “marina terzana” (grossomodo presso l’attuale Liceo Classico) e “marina del molo” (grossomodo presso l’attuale Lega Navale): queste due aree erano state soggette ad imponenti lavori di movimento terra tra il 1541 e il 1570, quando Giovanni Giacomo dell’Acaya voleva “separare” la città dalla terra ferma creando un fossato che si riempisse con l’acqua di mare. Lo scavo andò avanti per decenni, ma con la morte del barone i lavori si fermarono. Per diversi anni le mura della città furono circondate da una fossa profonda “12 palmi più del mare”, che nel corso del ‘600 venne gradualmente interrata.

L’espansione della città dunque si concentrò nelle aree più pianeggianti, anche perché già esistevano alcuni piccoli insediamenti e diverse chiede verso la foce dell’Esaro. Nel XVIII secolo iniziò così la costruzione dei primi magazzini, e diverse attività e botteghe si spostarono dalle strette vie della città alle più ampie costruzioni caratterizzate da grandi tetti a spiovente. Alcuni di questi magazzini, risalenti al loro periodo di costruzione, sono ancora visibili in località Sant’Antonio.

Tra i primi a spostarsi al di fuori delle mura difensive furono i macellai. Non ci è dato sapere perché, ma i macelli – che comunque vanno pensati in maniera molto differente rispetto a quelli che consciamo oggi – si trasferirono quasi completamente fuori dalla città, precisamente a “circa 400 passi dalla porta principale”. Sorprendentemente, se provate a contare i passi che separano la Porta di Terra (tra il Bar Italia e la Pizzeria Colorado) e l’attuale Via Spiaggia delle Forche, otterrete poco più di 400 passi. Non è da escludere una motivazione igienica, dato che tali attività venivano svolte spesso in scantinati o comunque in luoghi poco adatti.

Ad ogni modo, i macellai si trasferirono nei pressi di un piccolo vallone che confluiva, poco più in basso, con il più noto torrente Pignataro. Oggi identificare questo vallone è piuttosto difficile, ma è verosimile credere che “corresse” proprio nei pressi di Via Spiaggia delle Forche, che al tempo era poco distante dalla spiaggia. Quel vallone veniva chiamato Vallone Vuccerìe, proprio per il fatto che i macellai vi scaricavano liquidi e liquami delle carcasse, e chissà cos’altro.

La zona interessata nel 1867

La presenza di botteghe e artigiani trasferì i nomi delle rispettive professioni alle aree. Ad esempio, la località Pignatàro era così detta per la presenza di lavoratori di pignàta, quindi di terra cotta. Sappiamo che esisteva un altro vallone, detto “dei mattoni”, che serviva proprio come scarico di una prima carcàra poco al di fuori delle mura. La località Marinélla, porzione più piccola rispetto alla “marina terzana” e quindi compressa tra altre zone, divenne un ritrovo per armatori e piccoli cantieri navali, vista la vicinanza con il mare. E poi, la località Fùrche, successivamente Fòrche, per la presenza di numerosi macellai che fissavano al terreno i loro strumenti di lavoro.

A questo punto, la domanda delle domande: cos’erano queste forche? Erano dei particolari abbattitori utilizzati, per l’appunto, per uccidere gli animali. Lo strumento detto propriamente “forca” era composto da una struttura di legno più o meno grande (in base all’animale che doveva contenere), nella quale si introduceva la bestia, le si immobilizzavano le zampe e le si chiudeva la testa in una gogna. Una volta bloccata, si poggiava sulla testa una furca o un merlo, particolari punte metalliche, e si colpiva con un grande martello di legno.

Chi non poteva permettersi questo strumento, si affidava a metodi un po’ più arcaici: fissava un palo metallico nel terreno, e vi legava saldamente l’animale, al quale aveva coperto gli occhi con delle bende. Il resto del procedimento era identico, e prevedeva il posizionamento di un ferro sulla testa dell’animale, che veniva colpito con forza tramite un grande martello di legno.

Esempio di forca a doppia punta

Potete immaginare la scena con più facilità guardando la particolare xilografia recuperata ad inizio articolo, per comprendere come quelle malcapitate bestie venissero condotte alla morte. Chissà il dolore, la sofferenza, le urla… specialmente se il mattatore sbagliava colpo, non uccidendo la malcapitata preda all’istante.

Altri tempi. Ad ogni modo, queste particolari gabbie erano posizionate all’aperto, assieme ai vari strumenti e, da quanto sappiamo, anche da alcune postazioni per la concia del pellame. Dalla presenza di varie postazioni di differenti dimensioni, il luogo prese il nome che tutti conosciamo.

Sempre nel corso del XIX secolo, a seguito dell’abbattimento della Porta di Terra e di diversi tratti delle fortificazioni, queste zone subirono una prima riqualificazione. Sappiamo infatti che “le forche” vennero trasferite in una località “a soli 50 piedi” dall’ingresso della città. I macelli infatti vennero spostati dove oggi continua ad esistere il Mercato della Piazzetta, che in quegli anni, complice anche la costruzione del porticato, divenne il principale mercato cittadino.

Tuttavia, seppur cambiate botteghe e attività, il nome della zona rimase legato alla prima attività che vi si svolgeva. Oggi si tratta di una delle poche zone che mantengono un nome “primordiale”, non legato dunque ad eventi succesivi e più recenti, ma collegato indissolubilmente ai primi passi mossi dai crotonesi al di fuori della città vecchia. Una piccola rarità per quanto riguarda il centro urbano, sia per quanto riguarda i nomi dei quartieri sia per quanto riguarda il nome delle singole vie, che oggi raramente mantengono i loro nomi antichi.

Esistono comunque altri esempi, come i quartieri di Tufolo e Verdogne, o come la piazzetta Niva Vecchia, ma è sempre più frequente una snaturalizzazione di questi posti, non più ricollegati o riconducibili al loro passato. Così com’è accaduto a Via Spiaggia delle Forche. Ora, almeno, sapere perché si chiama così.

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