Questa mattina è diventata di portata nazionale una notizia che in Calabria è tutto fuorché insolita: il sequestro di oltre duecento ghiri congelati nel reggino. Per un motivo o per un altro, la notizia è finita su quasi tutti i principali giornali italiani, più che altro perché si è tirata di mezzo (a forza) la ‘ndrangheta.

Il primo articolo è stato pubblicato su Repubblica, con un titolo perentorio: “Reggio Calabria, i carabinieri sequestrano 235 ghiri congelati e pronti al ‘consumo’: è il cibo delle ‘mangiate’ di ‘Ndrangheta“. Poche ore dopo, il concetto è stato ripreso anche dal Corriere della Sera, con l’articolo: “Sequestrati 235 ghiri congelati, piatto preferito dai boss della ‘ndrangheta“. E così via un po’ ovunque, quantomeno a livello nazionale.

A livello locale, invece, la notizia non ha avuto molta enfasi. È stata riportata con toni meno allarmistici, e non per “paure” o “sottomissioni”, ma perchè è del tutto normale che in questo periodo si sequestrino dei ghiri. Purtroppo la caccia a questo roditore – che è specie protetta – è estremamente comune in tutta la regione, al pari di quella che si fa a tutte le altre specie proibite.

Piatti a base di ghiro possono essere mangiati (clandestinamente e su richiesta) in Sila, sul Pollino e sopratutto in Aspromonte, dove fino a non molti anni fa addirittura il sito istituzionale di un Comune presentava una ricetta a base di ghiro e tordo: due specie la cui caccia è proibita, usati per farci il ragù.

Quella pagina è scomparsa, nel frattempo, dal sito del Comune in questione. Ma la ricetta è disponibile online su più portali, ed è richiamata in numerosi ricettari cartacei. Questi poveri animaletti possono essere acquistati, per chi se lo stesse chiedendo, a circa un centinaio di euro al chilo, anche se molti cacciatori li vendono in genere a 5 euro al pezzo.

Infine, per concludere la chiosa su tale consuetudine – che non è solo calabrese, ma frequente anche in altre regioni – è bene ricordare che la caccia a specie proibite avviene prevalentemente per evidenti ragioni di consumo. Secondo voi, è più probabile che quei 235 ghiri servissero ad un pranzo/cena di ‘ndrangheta, o che fossero una specifica richiesta di uno o più ristoratori della zona? O perché no, richiesti direttamente dai clienti finali, dai consumatori?

Il punto sta qui. Il ghiro è un animale consumato anche dagli appartenenti alle cosche di ‘ndrangheta. E non potrebbe essere altrimenti, dato che anche i mafiosi mangiano – fino a prova contraria – un po’ tutto quello che mangiamo noi. Come hanno scritto in molti, è una pietanza che viene fuori spesso nelle intercettazioni, quanto meno nelle aree aspromontane, e comunque al pari di altra selvaggina.

L’accostamento alla ‘ndrangheta è però pretestuoso, perchè la caccia di questo animale avviene comunque ed a prescindere. Si pensi alla caccia notturna che si effettua nel crotonese, nella presila: oltre a chi caccia per consumo proprio (resiste ancora chi sa cucinarli), il ghiro si trova prevalentemente nei menù di alcuni agriturismi. Di intercettazioni di mafia su questo piatto, qui, non ce ne sono.

Non è la prima volta che ci si inventa una sorta di “piatto rituale” della ‘ndrangheta. Se ricordate, a ridosso del 2010 divenne frequente l’accostamento della carne di capra alla malavita calabrese. Sempre perché nel reggino – dov’è di uso frequente – le intercettazioni dell’epoca lasciavano intendere che i banchetti dei summit fossero a base di ortaggi e carne di capra.

Si aprì così la mitizzazzione delle cràpa, elevata a cibo “rituale” e contraddistintivo della malavita, almeno per un pubblico di spettatori esterno. Ci si dimenticò che si tratta di un piatto abituale, e forse i più ricordano una delle scene iniziali del film Anime Nere, che racconta la ramificazione della ‘ndrangheta al nord partendo da una “rimpatriata” in Calabria che si apre con il furto ed il consumo proprio di una capretta.

Che poi gli affiliati delle varie cosche consumino anche questi aninali con finalità rituali o dimostrative, è vero e risaputo. Basti pensare al servire un animale intero senza la sola coda, circostanza riportata anche questa in numerose intercettazioni o da collaboratori di giustizia: un invito a non sgarrare, perché prima di una faida di sangue ti fanno soffrire.

O ancora, l’uso (poco citato ma ancora attuale) del consumo di un agnello, o di carne di agnello, dopo un omicidio. Tale circostanza, ripetuta anche di recente in diversi processi, è divenuta una consuetudine rituale per “celebrare il sangue“, per festeggiare l’avvenuta morte di un rivale. Usanza che in alti casi è tramutata semplicemente in un lauto pranzo o cena a base di carne (che l’agnello non si trova sempre).

Insomma, tutto questo per dire che l’accostamento fatto oggi è forse un po’ troppo sensazionalistico, dato che si riferisce ad una porzione geograficamente circoscritta della ‘ndrangheta e non tiene conto del consumo annuale di ghiri, stimato in almeno 20 mila capi all’anno. Difficile credere (o suggerire) che ne siano ghiotti solo i malavitosi.

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