Le censure possono essere subdole, viscide, difficilmente riconoscibili. Un esempio da manuale può essere fornito dalla frase usata da Jeff Bezos in qualità di proprietario del Washington Post, che nei giorni scorsi ha approvato – dopo diverse interlocuzioni interne al giornale, sia ben chiaro – una radicale modifica della sezione opinioni.
Ora, non scandalizziamoci a prescindere (come fanno purtroppo in molti), perchè Bezos non fa nulla di nuovo: ogni giornale ha le sue regole per le opinioni ed i contributi inviati da lettori e commentatori, e la cernita dei contenuti è all’ordine del giorno. Difficilmente vedremmo una nota di Rifondazione Comunista pubblicata su Libero, e viceversa.
Se però si discute della decisione annunciata da Bezos, è per due motivi. Il primo è il cambio radicale nella gestione della sezione in un quotidiano ampio e variegato come quello del Washington Post, che fino ad oggi, salvo evidente estremismi, ha sempre raccolto una vasta fetta di opinioni anche diametralmente opposte.
Inoltre, viene imposto un nuovo limite. Anzi, due: quello delle “libertà personali” e quello del “libero mercato”. Nel senso che adesso il giornale pubblicherà solo editoriali favorevoli a questi due temi, qualsiasi cosa voglia dire. Una definizione tanto ampia quanto nebulosa, che di fatto si presuppone più come una esclusione massiccia di contenuti, o comunque una selezione esclusiva ed arbitraria.
È ancora presto per trarre conclusioni, ma è un ennesimo passo verso l’aziendalizzazione dei media. Passo già fatto all’inizio del millennio, che si arricchisce di un nuovo solco tutto indirizzato all’autopromozione ed alla pubblicazione di temi friendly e, possibilmente, accondiscendenti. Chi l’avrebbe mai detto?
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