Con il liberation day americano, anche gli strenui difensori del libero mercato devono ammettere di aver creduto per anni ad una favola. Una fiaba, secondo la quale l’economia ed il commercio si “autoregolano” e dove i tessuti “sani” non hanno bisogno di particolari interventi da parte di uno Stato, qualunque esso sia.
Alla fine della fiera, proprio gli Stati Uniti – da sempre in prima linea nell’ultra-liberalismo economico, attenti a tagliare spese statali a favore dei privati – si riscoprono amanti delle tasse. Dei dazi, in questo caso. Ed il conto presentato in mondo visione da Trump è palesemente truccato, per un doppio motivo.
Il primo è ovvio, dato che nessuno ha mai imposto agli Stati Uniti una linea economica. Ciò vuol dire che se gli americani hanno preferito vivere in un sistema statale deregolamentato non possono di certo imputarlo agli europei, ai canadesi o ai cinesi. Che vogliano riprendersi quote di mercato è legittimo, dopo anni di delocalizzazioni: ma è un gioco che nessuno gli ha imposto, anche se ora è un ghiotto boccone a livello politico scaricare la responsabilità sugli “altri”.
Il secondo invece lo si può spiegare con il tanto commentato “effetto Vietnam”, paese che importa poco o nulla dagli states, ma principale produttore di materie prime con marchio americano (si pensi solo alla Nike). Ciò vuol dire, in altri termini, che le imprese americane hanno sfruttato il basso costo del lavoro del paese per trarne profitto, ed oggi tassano quello stesso paese perchè non importa in maniera “reciproca”, qualunque cosa voglia dire.
Immaginate se la Costa Rica facesse questi ragionamenti con l’export di banane… non esistono interscambi perfettamente equi, e qui sta la malafede della politica estera americana delle ultime settimane. Che sia una strategia o altro lo scopriremo presto, ma quel che è certo è che a farne le spese saranno i lavoratori: anche quelli americani, che gioiscono e sorridono alla notizia dei dazi.
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