In questi giorni veloci ho sempre meno tempo per scrivere, sempre meno tempo per stare dietro alle mie cose, sempre meno tempo per fermarmi un attimo a pensare. Le giornate seguono come già scritte, sveglia presto, lavoro, stanchezza, riposo. Nient’altro.

Ogni tanto mi fermo e penso che vorrei scriverla, qualcosa. C’è tanto su cui vorrei dire la mia. C’è tanto di cui discutere. Tanto su cui ragionare e farsi un opinione. Perché il problema sta tutto qui: non c’è più tempo per farsi un’opinione, e dunque ci si schiera da una parte o dall’altra.

O d’accordo o contro. O a favore o non a favore. O si o no. E tutto diventa stare da una parte o dall’altra.

Oggi, che ho fatto trentun’anni, ho avuto come regalo (si fa per dire) una giornata libera. Una bella giornata di pioggia, solo impegni familiari. Giornata nella quale avrei voluto fare, e nella quale non ho fatto. Leggere due righe in croce era impossibile, il quotidiano giusto sfogliato, le mail neanche aperte.

A furia di avvicinarmi alla libreria per scegliere qualcosa, ho rivisto l’ultimo libro letto qualche settimana fa. Non so come, ma ho ripensato subito ad una parte del libro in cui compariva il termine che avete letto come titolo: doxosophoi. Termine antico, spiegato nel mito di Theuth da Platone.

Quando ne lessi, avrei voluto scriverci qualcosa. È un concetto estremamente attuale, è un termine con un’etimologia affascinante, insomma ha tutto quello che serve per iniziare a scriverci qualcosa di interessante. Eppure, quel qualcosa non è venuto a galla. Al contrario, mi sono impersonificato in quel concetto.

Senza scomodare le variegate discussioni sulla differenza tra conoscenza e sapienza, è doveroso ammettere che siamo tutti (almeno un po’) dei doxosophoi, ossia “uditori di molte cose senza insegnamento” che “crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre come accade per lo più, in realtà, non le sapranno” e che dunque secondo il fantomatico re Thamus “sono diventati portatori di opinioni “.

Ogni tanto c’è una parte di me che mi dice ma-chi-te-la-fa-fare a spendere tutto questo tempo a dire ciò che pensi, che non è importante. Ed anche se è importante, è solo tempo perso. Inutile. Addirittura controproducente! Giorni in cui mi vedo come un doxosophoi, e penso che forse sarebbe meglio omologarsi con l’ambiente che mi circonda e lasciar perdere tutto.

L’alienazione del lavoro non fa altro che aumentare questa sensazione di estraneità, fatta di sguardi sospettosi e smorfie stranite. Scrivi? E perché?, mi chiedono. E vai a trovare una risposta convincente.

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