Nell’immaginario collettivo, i briganti sono sempre stati identificati come una sorta di difensori dei più deboli, avversi al potere ed all’oppressione e, specialmente, all’oppressore. In effetti, quando si parla di questo argomento pare ci si riferisca quasi esclusivamente al periodo unitario e risorgimentale, ma il brigantaggio è un fenomeno più lungo e complesso, che ha interessato il meridione per ben mezzo millennio. Ridurlo per tanto al solo arco temporale dell’Unità d’Italia non è solo sbagliato, ma è anche ridicolo.

Di fatto, i briganti si dividevano in due grandi categorie: da una parte c’erano i mercenari, al soldo di baroni, feudatari e potenti, mentre dall’altra c’erano i delinquenti comuni, persone che, per un motivo o per un altro, non avevano altra scelta se non quella di derubare, sequestrare e uccidere pur di sopravvivere.

E, a ben vedere, buona parte dei più noti briganti calabresi apparteneva senza dubbio alla categoria dei “mercenari”. Persone notoriamente feroci, violente, spietate e dotate di un piccolo “esercito” personale da mettere a disposizione del protetto di turno. Il tutto, per una consistente e ricca ricompensa. Da un punto di vista moderno, potremmo parlare di un vero e proprio business, che prevedeva anche rapimenti, agguati e violenze nei confronti delle famiglie rivali.

Non c’è da stupirsi, dunque, se nel 1799 il cardinale Fabrizio Ruffo si rivolse direttamente ai briganti calabresi per formare un vero e proprio esercito, al fine di riconquistare i territori che si erano proclamati indipendenti dal Regno di Napoli. E nel chiedere l’aiuto dei briganti non offrì loro ricchezze, ma qualcosa di ben più prezioso: l’amnistia totale.

I briganti infatti erano ricercati anche nel Regno di Napoli e se catturati potevano essere condannati a morte, specialmente se ritenuti colpevoli di numerosi reati. Per questo motivo, il cardinale Ruffo offrì, a chiunque avesse accettato di “arruolarsi” nel suo esercito e di lottare per la sua causa, un “condono tombale” su ogni reato commesso. Questa pratica era già stata utilizzata nel tentativo di contrastare il brigantaggio, ed era nota con il nome di truglio.

Pare che l’esercito del cardinale Ruffo arrivò a contare circa 25.000 uomini. Non solo briganti ovviamente, ma anche gente comune che accettò di buon grado di lottare in cambio di vedersi cancellare piccoli reati comuni (spesso collegati al mancato pagamento di tasse e imposte). A patto, ovviamente, di sopravvivere.

Numerose furono le riconquiste dell’Esercito della Santa Fede avvenute nel sangue. Catanzaro, Paola, Altamura, furono tra le più eclatanti, e tra queste bisogna annoverare anche la riconquista di Cotrone. Il cardinale Ruffo avrebbe voluto colpire la città via mare, ma non potendo contare su una nave da guerra dovette optare per un assalto via terra. Vecchia maniera. E per farlo, mobilitò diversi briganti dell’entroterra, alcuni già ben noti e temuti dalla popolazione.

E mmo vena Paniigranu ccu ianca carta mmanu,
ppi farti la ruvina di la nfama Donna Bettina.
E mmo ve vena Roccu Petruni d’i cutrunisi chiamata latruni,
ccu nu forti ed auto ciucciu ppi frustari a Nisi Curciu.
E ri nobili cutrunisi su ncappati intr’u mastriddu,
merda nfaccia a Don Martiddu

Ruffo chiese ed ottenne l’aiuto di alcuni soggetti ben noti nel circondario. Tra loro, Nicola Gualtieri meglio noto come panedigràno e tale Marincola detto pànzanera (che pare si chiamasse Giuseppe Marincola), che portarono con loro un consistente numero di uomini per assediare la città. Di fatto, i cotronesi sottostimarono il numero di avversari, e pur non arrendendosi fù impossibile per loro resistere, e dopo qualche giorno di assedio vennero sopraffatti.

Dopo le prime resistenze dimandò patti di resa; rifiutati dal cardinale che, non avendo danari per saziare le ingorde torme, né bastando i guadagni poco grandi che facevano sul cammino, aveva promesso il sacco di quella città. Cosicché dopo alcune ore di combattimento ineguale, perché da una parte piccolo stuolo e sconfortato, dall’altra numero immenso e preda ricca e certa, Crotone fu debellata con strage dei cittadini armati o inermi, e tra spogli, libidini e crudeltà cieche, infinite.

Di fatto, se è vero che la restaurazione borbonica venne operata grazie all’ingegno del cardinale Ruffo, “fedelissimo servitore vero” di Ferdinando I, è altrettanto vero che questa si potè compire grazie alla mano di numerosi calabresi di allora – briganti e non – che barattarono quanto di poco avevano in cambio della promessa di una vita nuova.

La città di Cotrone resistette come potè all’assedio, ma l’armata sanfedista, arricchita anche dalle numerose armi saccheggiate dalle vicine città oltre che dalla bravura e dall’esperienza in battaglia di numerosi uomini, rappresentava un esercito invincibile. Nell’arco di pochi giorni, pur dopo un testardo tentativo di resistenza che gli verrà riconosciuto a posteri anche dal Ruffo in persona, la città cadde e si arrese. Ne seguì, oltre alle già note condanne a morte, un violento saccheggio tollerato e giustificato come “ricompensa” per la riuscita nell’impresa.

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