In queste ore, dopo la morte di George Floyd brutalmente ucciso dalla polizia di Minneapolis, il mondo torna a guardare con terrore alle proteste popolari. In america bruciano i commissariati, vengono distrutte le auto della polizia, saccheggiati i negozi. Si spara ad altezza uomo.

Gli Stati Uniti non sono mai riusciti a risolvere il problema. Probabilmente non lo hanno mai affrontato. Eppure, sono anni che il problema è noto, di dominio pubblico. Sono anni che rivediamo in televisione le stesse scene, di uomini colpiti senza motivo, sparati a bruciapelo, strangolati, addirittura seviziati in alcuni casi.

Chissà quanti morti, che non hanno avuto il “piacere” di esalare l’ultimo respiro in diretta Facebook. Chissà quanti morti anonimi, derubricati subito come decessi “per patologie”, un po’ come succede anche in Italia (seppur con frequenza decisamente inferiore).

Ma di una cosa, ancora oggi, riesco a stupirmi. Perché siamo un mondo strano, un controsenso perenne. Riusciamo in qualche modo a tollerare la morte di un innocente, ucciso senza motivo, ma non un saccheggio. Troviamo più scandaloso il comportamento – spesso estremo e incoerente – di chi protesta con la forza, ma non ci stupiamo più di fronte a ciò che l’ha causato.

Tra le pantere nere serpeggiava uno slogan ancora piuttosto attuale: niente giustizia, niente pace. Un ragionamento talmente ovvio, talmente in linea con l’essenza dell’uomo che sin dai tempi più remoti ricorre alla legge del taglione, da rendere ridicola ogni strumentalizzazione delle proteste.

Ma daltronde, siamo una società capitalista. Una società che tutela la proprietà privata, non le persone.

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