“La truscia si raccoglie con la pala”. Il messaggio chiaro ed inequivocabile è apparso oramai qualche tempo fa su una panchina del lungomare, ed è un chiaro riferimento ai tempi duri che stiamo vivendo e che vivremo da qui a qualche mese.

Come si suol dire, c’è trùscia. Vocabolo sulla bocca di tutti da tempi immemori, qui in città, dove la lamentela per le ristrettezze economiche, per gli incassi bassi e per le spese eccessive è quasi una costante storica. Oggi, superato – almeno per ora – lo scoglio del coronavirus, non ci resta che riaffacciarci alla quotidianità per renderci conto che la trùscia c’è e si sente.

Senza entrare nel merito delle questioni economiche, soffermiamoci sulla parola. Sulla trùscia. Il termine è oramai parte integrante del dialetto crotonese, avendo sostituito vocaboli più antici come spasulàto o spaturnàtu. Definisce per eccellenza lo stato di indigenza, di miseria, anche se, originariamente, indicava solo un oggetto.

Il termine si è diffuso nell’estremo meridione dalla Sicilia, dove ha preso ad identificare il fardèllo (o fagòtto). L’oggetto era di uso comune ancor dopo la fine della seconda guerra mondiale, e contraddistingueva chi era così povero da potersi permettere una borsa, uno zaino o un borsello di qualunque tipo. Queste persone realizzavano così dei fagotti con pezzi di stoffa, e li legavano ad un bastone.

A sua volta, la parola dialettale trùscia deriva dal termine francese troùsse. Oggi le troùsse sono collegate al mondo della moda e dei trucchi, e quindi si contraddistinguono come oggetti piuttosto costosi. In passato, invece, la parola stava ad indicare un qualsiasi astuccio.

L’impossibilità di possede un piccolo contenitore per tenere le proprie cose, e la necessità di ricorrere così al proverbiale fardello, fece cambiare il significato della parola francese. Dalla Sicilia poi il termine si è diffuso, ed è oggi presente in buona parte della Calabria, della Basilicata ed in alcune zone della Puglia.

In passato erano di uso comune anche dei vocaboli “derivati”. Termini come strùscia, usato per indicare il rumore degli oggetti contenuti nel fardello (“sènta cchi strùscia cca ffòra“), o stròscia, usato per indicare donne di malcostume (“chira è propr’nà stroscia“), erano frequenti e di uso comune, mentre oggi si salva, nel parlato comune, solo il termine classico.

Anche questa, in fondo, è un po’ della nostra storia. In tutti i sensi.

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