In questi giorni si stanno diffondendo una serie di comunicati con cui diversi organi statali o istituzioni – come la Commissione Europea – hanno vietato ai loro dipendenti di installare TikTok sui propri smartphone di lavoro. Chi aveva l’app dovrà invece disinstallarla.

Si tratta di un provvedimento censorio simile a quanto già accaduto tra Huawei e Google qualche anno fa, e capitanato, come sempre, dagli Stati Uniti. In sostanza, il “rischio” (tutto ipotetico) è che i dati diffusi tramite l’applicazione possano in qualche modo finire nelle mani del governo cinese.

Una questione di privacy, dunque, che riguarda nello specifico i dipendenti pubblici. Ma è una questione ridicola: il “lavoro” dei social network è quello di spiare le persone e trarne profitto. Un business nato proprio nella Silicon Valley dove ancora prospera.

La volontà neanche troppo velata, in questo caso, è quella di “colpire” indirettamente la Cina, attaccando uno dei suoi principali strumenti tecnologici di massa. L’accusa, va da sè, non è infondata, bensì pretestuosa, visto che ogni social network (ma anche ogni strumento di messaggistica istantanea, oramai) raccoglie i dati personali per rivenderli poi a terzi.

La privacy è dunque sbandierata come un pretesto, da difendere però solo se è minacciato da un competitor. Con buona pace della libertà di mercato tanto millantata.

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