In questi giorni sono tornati a scioperare alcuni dipendenti dell’Abramo Customer Care, dopo l’annuncio, da parte di Tim, di non rinnovare una commessa di lavoro. Ciò si traduce, in altri termini, in ben 493 casse integrazioni a zero ore, che probabilmente si trasformeranno in esuberi. In licenziamenti.

Una tempistica pessima, a pochi giorni dal Natale, i cui contorni sono ancora da definire. Sappiamo infatti che è stata autorizzata la cessione della rete Tim al fondo americano KKR, e che nonostante l’offerta ci sono ancora diversi miliardi da recuperare per far fronte al debito-monstre della società di telecomunicazioni (oltre 26 miliardi).

Dopo la dismissione di quasi tutte le cabine telefoniche, adesso inizia anche la dismissione del personale. Su 1.050 dipendenti attuali, l’Abramo conta di metterne in cassa integrazione sostanzialmente la metà, e lo fa allo scadere degli impegni presi un anno fa dal viceministro Alessandra Todde. Appare dunque chiaro che sono due i fattori che tengono in piedi questa azienda.

Uno, ovviamente, è rappresentato dalle commesse esterne. Negli anni abbiamo affrontato diverse problematiche anche riguardo ad altri fornitori (si ricordi il caso di Roma Capitale), ed appare chiaro che, in un libero mercato, ognuno può affidare i servizi a chi vuole. Non ci si dimentichi che la stessa società aprì delle sedi all’estero, e non solo nell’est europa, al fine di adeguarsi alle richieste di mercato.

Ma oltre alle commesse, è evidente che da oltre vent’anni l’Abramo Customer Care sopravvive e si trascina grazie all’interesse della politica. Già nel 2010 si fecero diversi tentativi per “salvaguardare l’occupazione” tramite una commessa con l’allora Sasol, e a distanza di due decenni adesso si chiede di fare lo stesso con l’odierna Tim.

Come si può pensare che questo sia un assetto economico-finanziario stabile? Sfogliano le 12 pagine di archivio sull’azienda, vi troverete davanti al solito copione: rischio licenziamento, intervento di sindaci/presidenti/politici, incontri, parole… e di fondo un’azienda incapace di stare in piedi da sola.

Dispiace per i lavoratori, uniche vere vittime della vicenda. Ma è impensabile pretendere in un aiuto eterno da parte dello Stato o delle istituzioni, se non altro perché si parla di un’azienda privata, che come ogni altra azienda può fallire. E forse è arrivato il momento di fare nà rùtta e nà brùtta e porre fine ad una crisi ciclica che di certo un commissariamento non risolverà.

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